Chissà quante volte ci è capitato di imbatterci nella vita di qualche Santo/Santa: nell’ambito di qualche inchiesta, per semplice curiosità personale o per approfondire la vita dei nostri omonimi ricordati dal calendario. Tante volte siamo stati stimolati a riflettere sulla santità intesa come percorso e insieme come meta, altrettanto spesso ci hanno detto che valgono i gesti di tutti i giorni, che non ci viene richiesto di compiere grandi imprese, quanto più di vivere ogni momento come risposta ad una Chiamata Grande, sul modello di Gesù.
Per quanti sforzi abbiamo fatto però, spesso le vite dei nostri più cari santi come Santa Caterina e San Paolo ci sfuggono dalle mani, fatichiamo a ritrovare dentro le loro vite qualche brandello della nostra e imitarli ci sembra davvero difficile. Per questo, ci sarà cara la conoscenza e la memoria di Carlo Acutis: classe 1991, il primo Millennial ad essere stato beatificato, tuta e scarpe da ginnastica e un profilo Facebook che utilizzava per raccontare senza paura la sua amicizia più grande, quella con Gesù che era per lui una «persona viva» con il quale intrattenere un rapporto stretto e quotidiano.
La sua breve vita appare sin da subito impregnata di questa relazione, ma Carlo non proviene da una famiglia religiosa. La madre infatti racconta di essere entrata in chiesa tre volte: comunione, cresima e matrimonio.
Forse una bambinaia polacca gli da qualche primo assaggio di devozione che lei coltiva nei confronti di papa Wojtyla, ma nella storia di Carlo la presenza di Gesù e la scelta di coltivare questa relazione di amicizia sembra quanto più di naturale e irresistibile
dovesse accadergli. Sempre la madre racconta che «a tre anni e mezzo chiedeva di entrare nelle chiese per salutare Gesù. Nei parchi di Milano raccoglieva fiori da portare alla Madonna. Volle accostarsi all’eucaristia a 7 anni anziché a 10».
Durante la sua infanzia, parallelamente, cresce anche la passione per l’informatica e a 6 anni gira già per casa travestito da “scienziato informatico”, a 9 prende in prestito i libri del Politecnico per imparare a scrivere in linguaggio di programmazione. Intuisce che nel suo, nel nostro tempo, la rete è il mezzo dell’evangelizzazione, le persone sono da raggiungere non per
omologazione, ma utilizzando il web come strumento per diffondere ciò che di bello ogni giorno ci muove nella speranza. Papa Francesco lo ricorda nell’esortazione apostolica Christus vivit al punto in cui affronta il tema dei rischi del mondo digitale che può portare a chiudersi in sé stessi, ad isolarsi e a praticare forme di “piacere vuoto”. Ricorda il Pontefice che esistono esperienze di giovani che hanno saputo destreggiarsi e sfruttare il mondo digitale in modalità creative e a volte geniali e a questo proposito fa proprio l’esempio di Carlo, abile conoscitore dei meccanismi di comunicazione della pubblicità e delle reti sociali. Egli era consapevole che una certa modalità di frequentazione di questo mondo può trarre gli utenti in modalità d’uso passive, creare dipendenze, renderci consumatori/ acquirenti incalliti, ossessionati dal tempo libero e inclini alla chiusura e alla negatività. Per questo Carlo ha voluto battere nuovi sentieri e utilizzare le stesse tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza. Egli viene preso ad esempio proprio perché non è caduto in trappola, non ha ceduto al rischio di omologarsi a tanti coetanei supini alle logiche di quel tipo di fruizione passiva e di continua ricerca di imitazione di finti modelli. Così facendo Carlo combatteva la sua battaglia per evitare che i doni ricevuti dal Signore venissero persi e gli fosse impedito di sbocciare, si è adoperato per far sì che venisse preservata l’originalità di ciascuno attraverso la scoperta della bellezza propria di creature e del creato che ci circonda, sempre originale e mai uguale a sé stesso (cfr. Christus vivit 104-105-106).

Ma ecco il nostro “Cane che morde”.
Carlo si ammala nell’ottobre del 2006 e in soli tre giorni muore a causa di una leucemia fulminante. Tale è la sua fiducia nel Padre che non c’è spazio per lo sconforto nella sua reazione, ma ironia e totale abbandono a quanto il Signore ha messo sulla sua Strada: “il Signore mi ha dato una bella sveglia” è il suo commento post diagnosi e appena trasferito all’ospedale San Gerardo
di Monza dichiara “da qui non esco vivo”. Muore poche ore dopo, il 12 ottobre, data nella quale viene ricordato come beato.
Numerosi sono i segni che gli vengono attribuiti a partire dalla sua morte, ma forse quanto ha compiuto di più bello e vicino alla nostra esperienza umana è stata la sua voglia di alzarsi dal divano per uscire e portare la Chiesa agli ultimi che per lui concretamente ha significato consegnare cibo e sacchi a pelo comprati da lui ai senza tetto di Milano, alle mense dei poveri delle suore di Madre Teresa a Baggio o dei Cappuccini in viale Piave, luoghi in cui si recava la sera, insieme al cameriere di famiglia, Rajesh Mohur che standogli accanto sceglie di convertirsi.
Ma anche le frasi e i segni che fa arrivare nella quotidianità alla madre che si è arresa all’entusiasmo del figlio e ha iniziato anche lei un lungo percorso di conversione del cuore che la vede tuttora impegnata nel comprendere e dare senso a questa grande “Dioincidenza”.
La vita di Carlo, breve ma così intensa, ci restituisce l’urgenza di dare senso, dare scopo e bellezza al tempo che viviamo e agli incontri che facciamo. Perché non abbiamo più dubbi se fermarci e aiutare, se metterci la faccia, se essere sempre pronti/e a servire, imitiamolo nello slancio e portiamo il nostro originale e prezioso contributo nel nostro mondo!

Silvia Breda