A proposito di… speranza, Annalena Tonelli

“IO IMPAZZISCO PER I
BRANDELLI DI UMANITÀ2013.A.SPERANZA.ANNALENA.02 FERITA, PIÙ SON FERITI,
PIÙ MALTRATTATI,
PIÙ DI NESSUN CONTO AGLI
OCCHI DEL MONDO,
PIÙ IO LI AMO.
QUESTO NON È UN MERITO,
È UN ESIGENZA DELLA
MIA NATURA.”

Annalena Tonelli nasce a Forlì, nel 1943. Cresce nell’Azione Cattolica forlivese e nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), di cui diviene presidente locale. Nel 1963 contribuisce a far nascere nella sua città un comitato contro la fame nel mondo che ancora oggi sostiene un centinaio di missioni.
Si laurea in giurisprudenza, ma contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non diventa avvocato, né magistrato. A venticinque anni decide di partire per il Kenia: “Credevo di non potermi donare completamente rimanendo nel mio Paese.” – racconterà nel 2001 – “I confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici. Compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era Dio che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine.
Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita”. A Wajir, un villaggio desolato nel deserto, vicino al confine con la Somalia, si dedica ai nomadi e ai
profughi somali denunciando i militari kenioti che volevano annientarne un’intera tribù e salvandone così a migliaia. Da sola impara a convivere
con il rischio quotidiano: è continuamente minacciata perché bianca, donna, cristiana e non sposata. Arriva in Kenia come insegnante di lingua
inglese ma l’incontro con l’Africa e in particolare con i somali, la spingono a studiare medicina. Consegue certificati e diplomi di controllo della
tubercolosi in Kenya, di medicina tropicale e comunitaria in Inghilterra, di cura della lebbra in Spagna. Nel 1974 è costretta ad abbandonare il
Kenia: le sue denunce verso le repressioni dell’esercito sulle tribù nomadi somale contribuiscono a fermare le uccisioni ma viene arrestata e davanti alla corte marziale è chiaramente minacciata di morte.
Nella vicina Somalia continua a dedicarsi instancabilmente alle piaghe che affliggono i popoli: costruisce un ospedale che diventerà punto di riferimento anche
per Gibuti ed Etiopia per la cura e la prevenzione di tubercolosi e AIDS; fonda una scuola per bambini sordi, ciechi e disabili; si impegna
contro le mutilazioni genitali femminili (l’infibulazione) e per l’assistenza ai poveri e agli orfani.

Tuttavia, contro ogni logica, il suo amore e la sua dedizione non sono apprezzati da tutti, ma Annalena non demorde, consapevole del valore di quel che sta facendo:
“Sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata imprigionata, ma non ho mai avuto paura”.
Nel 1976 la OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) le chiede di diventare responsabile di un progetto pilota per la cura della tubercolosi tra i nomadi. Oggi il
trattamento messo a punto da Annalena, che consente la guarigione in un tempo di sei mesi, è stato adottato dall’OMS per il
controllo della tubercolosi. Nel giugno 2003 riceve il premio Nansen, un prestigioso riconoscimento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, per il suo impegno nell’assistenza ai profughi. Nell’ottobre dello stesso anno, viene uccisa a colpi d’arma da fuoco mentre esce dal suo ospedale, forse per vendetta, forse
per fanatismo. Quando muore Annalena ha 60 anni, 33 dei quali trascorsi in Africa a dare speranza ogni giorno agli ammalati e ai dimenticati,
ai disperati insomma, cioè a coloro che hanno perso la speranza.
Nelle condizioni difficili, spesso apparentemente impossibili in cui ha vissuto, anche lei avrebbe potuto smarrire la fede, la speranza, ma come ha detto una volta:
“La vita è sperare sempre, sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, credere che Dio c’è e che Lui è un
Dio d’amore. Nulla ci turbi e sempre avanti con Dio. Forse non è facile, anzi può essere un’impresa titanica credere così. In molti sensi è un tale buio la fede, questa fede che è prima di tutto dono e grazia e benedizione… Perché io e non tu? Perché io e non lei, non lui, non loro? Eppure la vita
ha senso solo se si ama”.

Francesco Barbariol