Se un giorno mi dovessero chiedere in quale momento della mia vita io abbia capito che il servizio sarebbe diventato per sempre una parte essenziale del mio essere, non solo scout, ma uomo, dovrei sicuramente dire il giorno della mia Partenza. Essa è stata per me allo stesso tempo la conclusione e l’inizio di un percorso, quel passaggio dal ragazzo all’uomo. Io credo che la partenza sia il simbolo di una maturazione personale, avvenuta attraverso quel mare di avventure, di emozioni, di pensieri, di lotte che si vivono e si condividono con gli altri. Il fatto di aver preso la partenza non significa che io sia perfetto e nemmeno che abbia una conoscenza infinita (tutt’altro!), semplicemente mi sono reso conto che “lo zaino” di esperienze dei 13 anni di scoutismo che si vivono dai lupetti passando dagli esploratori fino ad arrivare al Clan si è riempito sufficientemente per, come direbbe B.P., poter guidare la mia canoa da solo, con quella serenità che mi permetterà di dare il massimo per gli altri. Infatti nel momento della partenza ho ripensato intensamente alla mia vita scout, agli obiettivi raggiunti, agli amici, ai giochi, ai monti, alla strada fatta, a tutto, e in quel momento si è chiarito nella mia mente il vero significato di quella promessa pronunciata tante e tante volte, con cui mettiamo nelle mani del Signore noi stessi e promettiamo di fare DEL NOSTRO MEGLIO PER SERVIRE. Servire appunto… che parola pesante!!!
Significa tanta pazienza, tanto impegno, e soprattutto tanti, tantissimi sacrifici. Sacrifici che aumentano sempre di più col passare del tempo, sembrano infiniti, a volte non se ne vede mai la fine e allora ci si tira fuori e si abbandona, pensando di poter trovare un’altra strada di gioia senza fatica; ma se c’è una cosa che si impara crescendo è che non è vera gioia se non hai combattuto per ottenerla, non è gioia se non condivisa con gli altri. Prima di arrivare a questo mio pensiero è stato necessario fare un percorso molto lungo e faticoso, ricco di insidie e di sacrifici, sacrifici che rifarei tuttora, nella convinzione che quanto ho appreso è molto di più di quello che mi sono perso. In particolare, credo che in cinque anni di Clan non si possano che vivere grandi emozioni ed esperienze incredibili.
Esse, se vissute al meglio, lasciano un segno indelebile nel carattere e nel modo di essere di ciascuno di noi. Partendo da questo presupposto non ci si può che soffermare su una delle quattro parti fondamentali del treppiede ovvero la COMUNITÀ. La comunità di Clan, ovvero l’insieme di noi ragazzi e dei nostri capi, è quell’elemento che ci porta a vivere nuove avventure, a condividere emozioni e che ci fa crescere INSIEME nell’unità e nell’amicizia per diventare dei buoni cittadini e dei buoni cristiani; questo dovrebbe essere, ma purtroppo a volte viene vissuto come un peso e un obbligo e non come momento di comunione e di crescita. Nell’arco del cammino in Clan ho avuto la possibilità di mostrare me stesso, quello che realmente sono, perché passata la paura di quel mondo sconosciuto, ho iniziato pian piano a comprenderlo e ad apprezzarlo fino a sentirne la mancanza ancora prima di lasciarlo. Ci vuole pazienza e volontà, ma lentamente ci si incammina su un nuovo percorso; all’inizio non lo si conosce e allora con timore lo si vive basandosi sul proprio istinto, ovvero cercando di adattarsi alla situazione e magari, creare un legame con gli altri. Ben presto però si capisce che per meglio percepire quello che gli altri ci vogliono comunicare con i loro atteggiamenti si impara qualcosa di nuovo: si impara ad ascoltare.

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ASCOLTARE sembra una parola così scontata, in realtà penso sia la parola più sottovalutata del mondo. La capacità di ascoltare gli altri non è semplicemente sentire e capire le parole che escono dalla bocca delle persone, ma è un assaporare, rielaborare e interiorizzare il messaggio che gli altri ci trasmettono, così da crescere e avvicinarsi all’altro e condividere anche noi con lui i nostri pensieri. Da qui si compie, forse senza volerlo, il passo successivo, quello di vedere non più la persona per quello che si mostra o per quello che ci raccontano ma per quello che essa è veramente, non fuori ma dentro, e la si accetta per i suoi difetti e i suoi pregi cercando di non far pesare più quelle negatività ma di far venire alla luce solo le qualità positive. In questo continuo mutamento c’è l’ennesimo “miracolo”: quello di imparare ad ascoltare se stessi attraverso gli altri, cercando non più di vivere una vita passiva, ma di mettersi in gioco con tutto se stesso. Se si riesce ad avere pazienza e si affrontano quei momenti di buio cercando di continuare in questa sfida senza a volte capire nemmeno dove ci voglia portare, ecco che tutto ciò viene fuori e si mostra nella sua incredibile bellezza, così da apprezzare la vita in tutti i suoi doni, così da smettere di vivere con timore e noia gli incontri con i fratelli, da disdegnare quei momenti incredibilmente lunghi e alla fine inutili di superficialità tipici del nostro tempo e vivere gustando appieno quei momenti capaci di cambiarci dentro, dando veramente valore a quello che conta. In conclusione la comunità di Clan è stata fondamentale per la mia crescita personale; è riuscita a estrarre alcuni miei lati nascosti, è riuscita attraverso i campi mobili a farmi apprezzare la bellezza del creato, è risuscita attraverso la strada a farmi capire che nelle vita le difficoltà sono infinite e ogni giorno si ripresenteranno, ma anche che esse, affrontate INSIEME al gruppo, non sono nulla e arrivati “in cima alla montagna” ho capito che l’immensa gioia del panorama non sarebbe stata così grande se non ci
fossero state le difficoltà ad insegnarmi a combattere.
Naturalmente non è stato facile, tutt’altro, però sono riuscito a trovare le motivazioni che mi hanno spinto a non mollare mai e a credere fortemente in me stesso.
Ognuno, in quello che fa, ha bisogno di trovare i suoi stimoli, io ne ho avuti diversi. Per prima cosa il pensiero di essere e di aver appreso tanto, più che per mio merito, perché un mare di persone (familiari, sacerdoti, capo, capo squadriglia, staff…) hanno dedicato il loro tempo ad educarci e crescerci nel modo che ritenevano migliore e ancora oggi ritengono, donando il loro tempo, le loro capacità e il loro amore nella speranza di farci comprendere che l’amore donato all’altro non è tempo perso ma tempo preziosissimo, usato nel migliore dei modi per far crescere le generazioni future e per farci capire che nella natura che il Signore ci ha donato, nel rapporto con gli altri, c’è molto più di quello che vediamo; perché credessimo che “lottare” per un mondo migliore non fosse il desiderio assurdo di un gruppo di sognatori ma la speranza che ci fa credere nel futuro. Mi sembra giusto quindi non vanificare l’impegno che molti hanno donato per noi ma a nostra volta dare tutto quello che possiamo e continuare a credere nel futuro.
Dopodiché ho scoperto che qualsiasi cosa fatta, anche la più noiosa, è cento volte più divertente se vissuta con il sorriso, che ci permette di non scoraggiarci e di affrontare le difficoltà con più serenità. Di grande aiuto sono state le frasi di B.P. che dicono “più contempli un pericolo e meno ti piacerà. Affrontalo con decisione e ti accorgerai che non è poi così brutto come sembra” e “Sforzati sempre di vedere ciò che splende dietro le nuvole più nere”. Infine ho imparato che da ogni ragazzo che si affaccia al mondo adulto si pretende una certo cambiamento, una certa maturazione, e quindi si chiede di diventare più responsabile; ciò non significa cambiare personalità e adattarsi a quello che fanno gli altri, ma si chiede semplicemente di saper distinguere il momento di serietà da quello di libertà, di rispettare sempre coloro che ti stanno intorno e ringraziarli per tutti i momenti che dedicano alla tua persona. In tutto questo miscuglio di sensazioni mi sono ritrovato a domandarmi sempre più spesso: Ma io faccio gli scout o sono uno scout? La differenza per molti non esiste, invece io credo che il significato sia totalmente diverso. Penso che quando uno afferma di “fare gli scout” confermi il fatto che la domenica si svegli presto, si vesta in maniera insolita, vada a messa perché tocca farlo e infine cerchi, finché indossa quello “strano vestito”, di comportarsi in maniera diversa.
Io credo che nello scoutismo ci sia molto di più, e che quella persona che alla fatidica domanda rispondesse “IO SONO UNO SCOUT” voglia farci capire che in quello che fa ci crede veramente, voglia farci comprendere che quegli ideali proposti da B.-P. e dalla cavalleria non siano una cosa antica ma le basi sulle quali fondare la sua vita. Eccoci alla fine di un percorso dove, dopo essere riusciti a raggiungere la meta e a capirne la bellezza, lassù ci si pone le domande conclusive… Ma tutto ciò avrebbe avuto senso se fossi stato solo? Tutto ciò ha senso se siamo solo noi a poterlo vivere senza farlo scoprire anche agli altri? La mia risposta è stata un secco NO, ed eccomi allora chiaro che nulla di tutto ciò che ho scoperto avrebbe avuto significato se non donato agli altri, ho capito che SERVIRE nonostante le mille difficoltà era la gioia più grande.
Concludo questo mio pensiero ringraziando il Signore di avermi dato la gioia di vivere lo scoutismo e di avermi sostenuto ogni giorno della mia vita, soprattutto in quelli più duri, perché solo attraverso Lui mi sono reso conto che noi tutti non siamo granelli di sabbia nel deserto ma uomini capaci di fare la differenza, sta solo a noi crederci e lottare fino alla fine per realizzare i nostri sogni e per quegli ideali di giustizia, di fratellanza, di servizio e di amore che non devono mai mancare nel nostro agire quotidiano.

Buona Strada, Amedeo Rivelli
Clan Barracuda Fano 1

a cura di David Giovannoli

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