Rosario Livatino è stato un giudice. Anch’egli, come Falcone, Borsellino ed altri magistrati, ha lottato giorno dopo giorno nelle aule dei tribunali in nome della giustizia, della libertà e della dignità degli uomini e delle donne. E anch’egli ha pagato tutto questo con la propria vita. Ciò che forse impressiona di più, nella storia di Rosario Livatino, è la giovane età a cui è stato ucciso, 38 anni. Ucciso per mettere fine ad una quotidiana opera di contrasto della Stidda, la mafia agrigentina, attraverso la confisca dei beni dell’organizzazione mafiosa. Seppure molto giovane, la competenza, la dedizione, lo studio continuo di Rosario, erano riconosciuti e apprezzati da tutti i colleghi. Certo, qualcuno lo riteneva troppo giovane per occuparsi di cose così grandi, tanto che si guadagnò il soprannome di “giudice ragazzino”. Ma Rosario non era un dilettante, aveva lavorato sodo per arrivare a ricoprire il ruolo di sostituto procuratore ad Agrigento (carica che ricoprì per 10 anni, Rosario Livatino dal 1979 al 1989). Rosario, infatti, nato in Sicilia, a Canicattì, nel 1952, si era distinto in ogni classe del suo percorso di studi per brillantezza, prontezza di ingegno e dedizione, dimostrandosi uno studente eccellente. Allo studio accompagnava l’impegno nell’Azione Cattolica. Nel 1975, si era laureato con il massimo dei voti in giurisprudenza a Palermo.
Dopo una breve esperienza come vicedirettore dell’Ufficio del Registro di Agrigento, si era iscritto al concorso per diventare magistrato, arrivando tra i primi classificati.
Nel 1978 comincia va cosi, giovanissimo, la carriera da magistrato presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel corso degli anni successivi, prima da sostituto procuratore e poi da giudice a latere, si era occupato della cosiddetta Tangentopoli Siciliana, inferendo numerosi colpi alle organizzazioni mafiose sul territorio. Nel 1990, mentre si trovava nella sua vecchia Ford Fiesta, veniva speronato da un auto e poi ucciso a colpi di pistola tra i campi in cui aveva cercato la fuga, sceso dalla macchina.
Rosario Livatino è ricordato non solo per il sacrificio della propria vita in nome della lotta alle mafie. Era un professionista colto ed estremamente consapevole.
Si è occupato e ha scritto con competenza del ruolo del giudice in una società che cambia. Non ha fatto mistero di una profonda fede cristiana, che ha conciliato rigorosamente con la laicità della propria funzione. A proposito del rapporto tra fede e diritto ha scritto:
Il compito del magistrato, è quello di decidere: una delle cose più difficili
che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere,
decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto
con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di
sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio.
Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.
Anni dopo l’assassinio di Rosario Livatino, Giovanni Paolo II lo ha definito martire della giustizia e indirettamente della fede. Nel 2011, raccolte le testimonianze necessarie, è iniziato ufficialmente il processo di beatificazione di Rosario Livatino.
Mi piace pensare a Rosario come ad uno di quegli uomini e donne che mettono a disposizione della società una capacità, una competenza, una professionalità (acquisite magari con fatica e costanza) a beneficio di qualcosa di alto, nobile. Ciascuno di noi può essere ispirato dalla storia di Rosario, l’esempio di un uomo semplice che ha fatto cose grandi, costruendole giorno dopo giorno, passo dopo passo.
“Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è
giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”
(In una conferenza su Fede e Diritto, 1986, citando Piero Pajardi, presidente del Tribunale di Milano)
Francesco Barbariol