Pier Marco Trulli
Tommaso Cioncolini e la moglie Giulia sono la coppia incaricata per la Pastorale Familiare della Conferenza Episcopale Italiana e affiancano il Responsabile dell’Ufficio Famiglia Don Paolo Gentili. Chiediamo a Tommaso un contributo sulla situazione attuale in Italia della paternità e della maternità.
Tommaso, sei da poco per la seconda volta padre. Che esperienza stai vivendo?
Un’esperienza bellissima: si rinnova il miracolo della vita e tutte le volte è sempre una gioia inedita! Per quanto uno abbia già vissuto l’esperienza della paternità, diventare padri e madri rimane comunque indescrivibile per le emozioni che provi e per l’impatto sulla tua vita.
Non puoi perciò far altro che riconoscere la bellezza della vita e il miracolo dell’amore, perché ti rendi conto che l’amore non si divide per due, ma si moltiplica: ti accorgi ad esempio che arrivata la seconda figlia vuoi ancor più bene alla prima.
È un’esperienza che si ripropone in una veste completamente diversa, con una gioia inedita che ti fa avere anche uno sguardo sull’infinito.
Ci si rende veramente conto che questa gioia, che è tutta radicata nell’amore tra l’uomo e la donna, ti fa però sentire la partecipazione in questo vissuto del totalmente Altro.
Per questo non sempre riusciamo a spiegare fino in fondo questa sensazione, restiamo per così dire meravigliati e tutta questa nostra gioia resta inspiegabile.
Dopo averti ascoltato e sentito questa gioia profonda viene spontaneo domandarsi perché questa fatica a diventare padri e madri, dato che le statistiche danno l’Italia ai minimi dal punto di vista della crescita demografica. Cosa frena le persone a sperimentare oggi questa bellezza?
Le cause sono tante. Indubbiamente bisogna riconoscere che c’è una difficoltà oggettiva per i giovani di oggi a guardare lontano. Questo perché le istituzioni non aiutano, ci sono difficoltà dal punto di vista lavorativo, della casa, dei servizi, non ci sono sostegni a favore della famiglia che consentano di guardare con fiducia al futuro.
Non voglio certamente giustificare le scelte di chiusura, ma solo comprendere che c’è una ragione, e che bisogna smettere di pensare che ciò sia solo frutto di una mancanza da parte dei nostri ragazzi.
In fondo, i nostri giovani non hanno fatto altro che respirare un’aria fortemente inquinata da modelli culturali elaborati dai loro padri e da adulti che non hanno saputo trasmettere fino in fondo l’importanza della vita e della paternità.
D’altro canto c’è stata anche un’incapacità a sentirsi padri, cioè a lasciare un’eredità: è una sorta di incapacità a pensare al futuro e a guardare lontano.
Un uomo diventa padre quando si sente nel cuore di diventare padre. Prima ancora di avere sul braccio il figlio bisogna sentirselo dentro, nel cuore: bisogna avere questa fecondità e questa apertura alla vita.
Oggi si fa fatica, nella misura in cui l’essere tutti ripiegati su sé stessi ci impedisce di proiettare il nostro sguardo sugli occhi del figlio.
C’è in fondo una sorta di paralisi del desiderio, un meccanismo che blocca il desiderio dei giovani. Di fronte a ciò gli adulti sono chiamati a irrigare il desiderio dei giovani e ad assecondare la voglia di paternità e di maternità che è innata nella persona umana.
Ci vuole un maggiore coraggio da parte degli adulti, che devono essere capaci di far vedere come sia bello assumersi la responsabilità di essere padri e di essere madri.
Tommaso, non si fanno solo pochi figli: Papa Francesco ci dice anche che “Il sentimento di essere orfani che sperimentano oggi molti bambini e giovani è più profondo di quanto pensiamo” (AL 173). Che significa essere orfani anche di madri e padri vivi? Come possiamo affrontare questa situazione?
Noi tendiamo spesso a professionalizzare la dimensione umana anche in tutte le sue sfumature più naturali, e così poi rischiamo di percepire l’assenza dello stile maschile e dello stile femminile nell’educazione.
Spesso infatti tendiamo a ridurre l’accompagnamento dei giovani all’intervento di figure professionali: mi capita di frequente di incontrare genitori che hanno figli che a 14/15 anni sono già finiti sul lettino dello psicologo, dello psicanalista o di altri specialisti.
Siamo di fronte a questo paradosso: riconosciamo che c’è una domanda dei nostri giovani, che ci chiedono di ascoltare una voce paterna e una voce materna, ma d’altro canto sentiamo forte che c’è anche un’assenza di tali figure.
Questo si verifica perché l’adulto non si riappropria delle responsabilità e della capacità di ascoltare, che non vuol dire soltanto belle parole. Ricordiamoci che a volte l’ascolto più importante lo facciamo con il silenzio.
Ci rendiamo quindi conto che abbiamo scommesso troppo poco sull’educazione: abbiamo dato per scontato che fosse un processo che sarebbe andato avanti da solo, che un insieme di figure o di strutture che contornano la vita familiare lo avrebbero tranquillamente accompagnato.
Ma chi lavora nel modo della scuola si rende invece conto benissimo di quanto sia difficile, per certi versi impossibile, costruire processi di apprendimento là dove dietro un alunno c’è una famiglia che manca e che non accompagna questo cammino.
È importante quindi rimotivare tutte quelle attività che favoriscono non solo la formazione dei genitori di fronte alle sfide dei tempi ma che vedono insieme padri, madri e figli che così fanno esperienza di paternità, maternità e filialità.
La madre dà la vita e accompagna i figli: se manca, il cammino dei figli è un andare a tentoni, diventa insicuro.
Il padre, o il babbo come diciamo noi toscani, è colui che spesso lancia il figlio in aria, verso la vita: anche con mia figlia più grande mi rendo conto che l’immagine che ricorre è questa. Lei si diverte, mia moglie invece mi invita a riportarla giù per terra…
C’è bisogno di queste figure, di padri che sappiano andare al largo e di madri che riportino con i piedi per terra.
Papa Francesco ci suggerisce di “fare delle nostre famiglie un luogo in cui i bambini possano radicarsi nel terreno di una storia collettiva” (AL 193). Spesso sottovalutiamo questo aspetto, pensiamo che basti dare delle regole, seguire dei comportamenti, mentre invece la storia collettiva è importante, è un pensare sociale, una dimensione comunitaria. Che ruolo ha il padre in questo? E la madre?
I padri e le madri cercano di far sì che i loro figli si comportino bene a prescindere dal timore degli altri. Quando si riesce a far passare questa autonomia, allora gli altri non sono più coloro che ti impongono dei comportamenti, ma sono il popolo, sono la capacità di condividere tutto il bene che si è ricevuto. La figura degli altri diventa perciò una grande opportunità anche per restituire il dono che si è ricevuto in quanto figli. Gli altri non sono quindi una dogana o un casello dove devo pagare il pedaggio, ma diventano l’occasione per dare più spazio e una maggiore risonanza a ciò che i figli ricevono in famiglia.
Dice bene Alessandro D’Avenia che per educare bisogna essere stati educati, perché il meccanismo è questo: colui che viene educato sa restituire l’educazione e sa trasmettere un educazione che non è centrata su se stesso ma è rivolta agli altri.
La nostra associazione, che è rivolta a giovani tra gli otto e i ventuno anni, ha come sai una finalità prettamente educativa. Secondo te, anche alla luce di quello che ci hai appena detto, si può educare alla paternità e alla maternità? Come possiamo lavorare su questi aspetti?
Credo che oggi giorno la sfida più grande sia riscoprire quanto sia bello essere figli e sentirsi figli. Quando ero in sala parto per la prima volta e ho sentito il pianto di mia figlia ho scoperto in maniera più nitida e chiara che cosa voleva dire essere figli. È un paradosso, diventare padri per scoprire che siamo figli.
Credo perciò che educare i nostri ragazzi a scoprire quanto sia bello può diventare la spinta più grande per comprendere il fascino e la bellezza dell’essere padri e dell’essere madri.
Un punto di vista molto particolare, grazie! L’ultima cosa che ti chiedo, sempre tratta dall’Amoris Laetitia, riguarda il fatto che per un figlio è importante godere non solo “dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza” (AL 172). Noi spesso parliamo dell’amore di un padre o di quello di una madre, ma educare insieme in due, come padri e madri, è diverso? Che valore ha?
Certamente è un aspetto molto importante, perché significa sperimentare la dimensione dell’amore.
Vuol dire vedere nell’amore del padre e della madre l’incarnazione di un miracolo che è la causa della propria esistenza e che ci riporta al senso stesso della vita.
Ed è bello, nella carne che ho addosso, nella mia corporeità, essere capaci di riconoscere che tutto questo deriva dall’amore di mio padre e di mia madre.
Credo che sia uno dei doni più importanti che facciamo ai nostri figli.
Grazie Tommaso per questi spunti, e in bocca al lupo per il vostro servizio alle famiglie italiane. A presto!