Mosè: Il Capo che non vede i frutti del “proprio” lavoro

Don Fabio Menghini – Assistente Nazionale Branca Esploratori

L’ultimo capitolo del libro del Deuteronomio narra il racconto della morte di Mosè. Egli che è stato “l’artefice” di prodezze e degno di fiducia da parte di Dio, egli che ha fatto uscire il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto, egli che lo ha guidato nel deserto, egli che ha ricevuto le tavole della legge, arriva alle soglie della Terra Promessa ma non vi entra.

Significativo questo strano disegno di Dio che sembra non voler far realizzare a Mosè la pienezza di quel sogno promesso ad Abramo e alla sua discendenza.

Eppure Mosè se ne va in pace comprendendo che invece la sua missione è compiuta…

Vorrei condividere con voi alcune suggestioni che mi porto dietro dagli ultimi esercizi spirituali a cui ho partecipato e che possono a mio parere far luce sulla provocazione del fatto che come Mosè il capo non vede subito i frutti del proprio lavoro.

Fin da giovani siamo stati abituati a dover meritare le cose, a dover essere bravi. Non ci insegnano a comprendere che siamo quello che siamo per grazia di Dio, ma ci dicono che ce lo siamo meritati perché abbiamo faticato, abbiamo lavorato, ecc…

Dobbiamo apparire sempre forti senza mai far vedere le nostre fragilità, altrimenti dovremmo testimoniare sul serio ciò che Dio ha operato in noi nonostante le nostre debolezze; se qualcuno arriva troppo vicino a scoprire le nostre fragilità, noi reagiamo per far vedere invece che siamo bravi; a volte è difficile ammettere le nostre debolezze perfino davanti a Dio.

Nei nostri gruppi contiamo sovente quanti ragazzi abbiamo, quanti capi, quante unità, quanto siamo stati grossi e bravi a tirare su il nostro gruppo, le nostre bella realtà, le sedi, le strutture; mettiamo insomma di più l’accento su quello che facciamo o abbiamo fatto piuttosto che su ciò che Dio ha fatto e ha operato in noi, nei ragazzi a noi affidati, nei nostri capi, anche attraverso tutto ciò…

Sembra che ciò che conti sono insomma le nostre di opere; l’opera di Dio rischia così di rimanere marginale, di non essere messa in evidenza, di essere addirittura in qualche misura ostacolata da coloro che avrebbero dovuto agevolarla e senza volerlo può finire che mettiamo Dio da parte.

Eppure noi non ci salviamo per le opere, né per le opere della legge, ma per la fede; è vero anche però che le opere ci fanno sentire protagonisti, ci piace contare i nostri “risultati” sulle punta delle nostre dita, ci piace essere riconosciuti per quello che facciamo, ci piace far vedere quello che facciamo.

E’ come se a volte la fede fosse stata e sia effetto nostro, l’unione con Cristo opera nostra, così come la grazia sia qualcosa da meritare a forza di cose fatte, cose sante comprese.

La salvezza di Dio invece è gratuita; non dobbiamo per forza fare qualcosa, dobbiamo invece semmai lasciar fare al Signore che ci indicherà cosa “fare” e ci guiderà nella sua azione.

Quello che siamo e che “facciamo” se segue la logica e la volontà di Dio così come dovrebbe essere è
dono suo innanzitutto; i doni di Dio non vengono dalle opere, proprio perché nessuno possa vantarsene ed entrare così in vuota superbia.

Riscopriamoci innanzitutto noi come opera sua e cerchiamo di camminare dentro l’unica opera buona vera che è la sequela di Cristo, vedendo anche ad essa però come suo dono che ci precede. Camminiamo dentro di lui, inseriti in lui, perché noi siamo già opera sua e siamo chiamati a compiere le sue opere mentre egli stesso in noi e attraverso di noi le compie.

Lasciamo dunque che le nostre opere non portino il nostro sigillo che si sbiadisce e non appaga nessuno, in fondo neanche noi.

Le “nostre” opere portino il sigillo di Dio, appaiano di Dio anche attraverso il nostro atteggiamento libero e grato nei loro confronti!

Impariamo a non farci troppa pubblicità e a non sbandierare troppo quello che facciamo; se l’opera è di Dio è silenziosa ma efficace, è Lui che sta agendo. Fidiamoci della sua azione e non sappia la destra quello che fa la sinistra.

Solo così la gente potrà lodare il Padre che è nei cieli vedendo le “nostre” opere buone, considerando che sono realmente nostre solo se le sentiremo paradossalmente tali proprio perché invece opera di Dio, cioè saranno veramente nostre davanti a Dio e le percepiremo tali, e saranno percepite altrettanto tali, solo se sono quelle di Dio.

Se agiremo così anche noi ci sentiremo più “nostri” nel senso bello, ossia più noi stessi perché Dio attraverso la sua azione costruirà anche noi sempre più a sua immagine.

Possediamo qualcosa quando ne carpiamo e contempliamo il senso più profondo, non finendoci di stupire davanti a qualcosa che sentiamo non più nostro e quindi genuinamente nostro, come un dono ricevuto da ridonare, un dono di Dio appunto.

Accennavo sopra che spesso cerchiamo senza esplicitamente saperlo (oppure essendone pienamente consapevoli) l’approvazione, la gloria e il plauso degli altri; se avessimo fatto la volontà di Dio già nel nostro cuore avremmo trovato la ricompensa e non cercheremmo altro.

Tornando a Mosè dunque, la sua opera non è stata inutile, è l’opera di Dio in lui, nel popolo a lui affidato, non è la sua opera… che però diventa sua proprio perché Mosè gradualmente ha imparato a viverla e vederla tale; egli sa che anche se non entrerà nella Terra Promessa, è Dio che continuerà la sua opera e traghetterà il popolo là dove dall’inizio voleva condurlo, a modo Suo. Il popolo non è di Mosè, ma di Dio.

La Terra Promessa di Mosè è in fondo aver imparato a fare la volontà di Dio compiendo la Sua opera nonostante i suoi limiti che sono stati per lui ulteriore segno della potenza e dell’azione di Dio; Mosè non ha avuto timore di non saper parlare perché la voce del Signore ha parlato per lui.
Dio infatti non sceglie i capaci ma rende capaci coloro che sceglie nella misura in cui gli fanno posto con umiltà e semplicità di cuore.

Così i nostri ragazzi non sono nostri, ma di Dio; noi vogliamo essere collaboratori dell’opera di Dio, certi che se seguiremo la voce del suo Spirito e nella preghiera chiederemo di agire da Lui, con Lui, in Lui e per Lui, egli porterà avanti la Sua opera, il compimento della quale sovente a noi non è dato di vedere, anche perché l’opera di Dio in noi e nei fratelli che ci sono affidati dura e si compie per tutta la nostra e la loro vita.

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Posted in 3/2014, Nelle sue mani