La testimonianza che porta la Parola

Marco Platania e Michela Bertoni – Commissari Generali

“Vorrei smentire il diffuso preconcetto che, per essere un buon Capo, uno debba essere una persona perfetta o un pozzo di scienza. Non è affatto vero“ B.-P., Il libro dei Capi.

“Evangelizzare non è bussare alla porta del vicino per dire ‘Cristo è Risorto!’ ma è vivere la fede, parlarne con mitezza, senza voglia di convincere nessuno: è dare gratis quello che Dio gratis ha dato a me… con lo stile di andare e condividere la vita degli altri, di accompagnare” Papa Francesco, Omelia S. Messa in Casa Santa Marta, 9 Settembre 2016.

La relazione che lega questi due estratti è quella che, prima ancora di saper fare o dire qualche cosa, bisogna essere. Per essere una buona Capo o un buon Capo non devi conoscere tutte le tecniche scout alla perfezione: quello verrà dopo, a seconda del tuo talento e dei tuoi limiti; ma non c’è nulla che ti impedirà di esserlo, se saprai offrire una testimonianza di vita autentica, coerente, se ci metterai la passione, l’impegno e l’amore per le tue ragazze e i tuoi ragazzi.

Per educare alla fede, a nulla serviranno le parole se non saranno precedute ed accompagnate da uno stile di vita mite ma coraggioso allo stesso tempo, ed anche sereno nella vita quotidiana.

Prendiamo una santa a noi molto cara, Madre Teresa: lei ha offerto agli ultimi la sua attenzione, delle carezze, curava le loro ferite fisiche ma anche quelle dell’anima.

Ma erano loro poi, e le persone che la guardavano nelle sue azioni, a domandarle da dove venisse quella forza, quella gioia nel fare tutto questo: solo allora lei rispondeva annunciando che era Dio a sostenerla in tutto questo.

Lo stesso stile educativo di Gesù, che nei Vangeli non avvicina le persone solo parlando dell’amore del Padre, ma prima di tutto si fa prossimo e li ascolta: così con la donna al pozzo di Sicar, così con i due discepoli di Emmaus, così con i poveri e la peccatrice, guariti prima nel fisico e poi nell’anima.

Non va predicando e basta, Egli ascolta, suscita domande e solo dopo annuncia.

I cuori devono essere aperti per poter ricevere l’annuncio.

Guardando al metodo scout, c’è molto di tutto questo: educare alla fede tramite tutte le dimensioni della vita e della quotidianità, dal carattere all’abilità manuale, dalla salute fisica all’esperienza di servizio.

In tutte queste dimensioni si educa con lo stile di chi accompagna e di chi condivide, facendo solo dopo scorgere la prospettiva più ampia e più profonda della vita che ti viene dal vivere con fede, facendo emergere domande che già albergano nel cuore delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi ma che hanno bisogno di un contesto e di una relazione per uscire fuori.

Non c’è una spiritualità a sé stante, non c’è una fede che noi possiamo creare in loro, ma essa può emergere e dare valore a tutto il resto.

Una tecnica scout apparentemente semplice come la cucina ci può aiutare a comprendere cosa intendiamo per tutto questo, cosa per noi potrebbe essere un accompagnare consapevole.

Il pasto si condivide, in uno spazio ed in un tempo ad essa dedicato, luogo di attenzione e di relazione con l’altro, cosa che già potrebbe essere singolare ed importante per molti al tempo del fast-food, del pranzo fuori casa ‘al volo’ o dentro casa ma davanti alla TV.

Il pasto si prepara insieme, ed è esperienza di collaborazione ma ancor più di trasformazione gioiosa degli elementi: cucinare non è mettere semplicemente insieme o a caso degli elementi, ma creare qualcosa di nuovo e di più gustoso, nulla deve restare uguale e “ciò che è duro deve essere intenerito, gli odori e i sapori da imprigionati si riescono a rivelare, il lievito, alleato del fuoco, svolge il suo lavoro senza rumore…” (Rubem A. Alves, La cucina come parabola).

È esperienza del piacere che si prova a fare qualcosa di bello per gli altri, a dare un’anima alle cose: il cuoco di solito non cucina per sé stesso, spesso anzi si accontenta di assaggiare il cibo, piuttosto si nutre della gioia di chi lo assapora.

È gioia dell’invito dell’ospite, esempio che il pane condiviso basta sempre per tutti (quasi si moltiplicasse) ed occasione di piccola riflessione per la Provvidenza che ci riunisce alla mensa.

Per fare tutto questo non c’è bisogno di essere chef stellati: c’è bisogno di calore e di passione, di pazienza e di saggezza. La tecnica aiuta, ma da sola non basta.

La cucina può essere dunque riletta come una tecnica che offre profondi spunti di spiritualità, e così molti altri ambiti del nostro metodo educativo.

Educare alla fede è così: non sono le parole di una persona che ti colpiscono, sono la sua gioia e la sua energia, ed esse non possono avere la loro fonte solo nell’intelletto.

E la Capo e il Capo che si nutrono davvero nell’Eucarestia non temeranno il rischio di non essere abbastanza compresi o seguiti dalle sue ragazze o dai loro ragazzi: la fede è dono di Dio, è quel gratis che non presuppone, per sua stessa natura, un riscontro numerico o tantomeno immediato…

La Capo e il Capo hanno solo la gioia e l’onore di accompagnare alla stessa mensa le ragazze e i ragazzi che sono stati loro affidati… ma ricordiamoci di distribuire gli inviti!

Posted in 2/2017, Editoriale