Dentro-fuori: evangelizzare a partire da ciò che si è e che si vive

Don Paolo La Terra – Assistente Generale

Nel percorso che abbiamo intrapreso per riscoprire i presupposti più profondi dell’evangelizzazione, perché il nostro annuncio possa essere più autentico ed efficace, la seconda tappa ci fa giungere al riconoscimento del primato dell’interiorità, in rapporto alla testimonianza che siamo chiamati a dare – come capo e come capi – nel contesto educativo, ecclesiale e sociale in cui si esprime la nostra vita.

Nella promessa dell’investitura a capo brevettato, ognuno di noi ha preso un impegno ben preciso: assolvere i doveri di cristiano praticante.

D’altra parte, lo scautismo si basa sul principio: “Fate come faccio io”, a cui va aggiunta la logica del servizio, che ci fa sottolineare molto la dimensione del “fare”.

Una lettura superficiale di questi elementi, potrebbe erroneamente condurre alla conclusione che lo scautismo abbia come obiettivo la messa in atto di comportamenti concreti ed esteriori, riconducibili alla sfera morale del “bravo bambino” e della “brava bambina”, che cerca di farsi accettare all’interno di un certo gruppo adeguandosi passivamente, acriticamente e formalmente alle norme che ne regolano la vita.

In effetti, la tentazione può esserci, e può anche non essere facilmente individuata, tenuto conto del fatto che viviamo in un contesto culturale in cui immagine e apparenza hanno spesso il sopravvento, a favore di una esteriorità basata sul “fare” che – anziché esprimerla – spesso mortifica e annulla l’interiorità.

Cedere a questa tentazione significa vivere una vita segnata dal camaleontismo trasformista di chi si adegua, di volta in volta, ai contesti in cui si trova, integrandone i rispettivi tratti specifici, anche tra loro confliggenti o contrapposti.

Un’immagine significativa di questo atteggiamento è la figura manzoniana di don Rodrigo ne I Promessi Sposi: quando Fra’ Cristoforo va a trovarlo – mentre sta gozzovigliando con gli amici – per esortarlo a lasciare in pace Lucia, senza alcuna remora egli risponde al frate che occorre stare “in chiesa co’ santi e nella taverna co’ ghiottoni”.

Per neutralizzare questa tentazione, presente, a maggior ragione, nel momento in cui si pone al centro dell’attenzione la vita spirituale e l’annuncio del Vangelo, occorre essere consapevoli del primato che ha l’essere sul fare. Il fare, infatti, è espressione esteriore dell’essere, coltivato nell’interiorità della propria vita.

Detto in altri termini, c’è un rapporto dentro-fuori che manifesta in modo autentico all’esterno ciò che si pensa, si crede e – in ultima analisi – ciò che si è. Il termine corrispondente a questa dimensione è coerenza. La coerenza ci permette di esprimere, quindi, in modo armonioso, ciò che siamo in ciò che facciamo.

In quest’ottica, l’assolvimento dei doveri di cristiano praticante e la forza trascinante dell’esempio del capo, in un contesto di servizio educativo e – più generalmente – esistenziale, diventano il momento affiorante di una interiorità profonda e fortemente radicata nella relazione con Cristo, capace di affascinare le persone con cui – a vario titolo – entriamo quotidianamente in relazione.

I vescovi italiani, nel documento sull’impegno educativo che accompagna il decennio che stiamo attraversando, hanno affermato: “I giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che suscitino amore e dedizione” (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 12).

Lette in modo speculare, queste parole sottolineano che la coerenza della vita, che si esprime nell’equilibrio tra interiorità ed esteriorità, contribuisce alla formazione di figure adulte di capo e capi motivati e autorevoli, capaci di testimoniare ragioni di vita che suscitano amore e dedizione nei ragazzi che la Provvidenza ha loro affidato.

Se questo ha valore per l’azione pedagogica in generale, a maggior ragione vale nell’ambito della trasmissione della fede, propria dell’evangelizzazione.

Il cristianesimo, infatti, non è semplicemente un insieme di riti, credenze e precetti morali; esso è, primariamente, l’incontro personale con una persona concreta – Gesù di Nazaret – che noi riconosciamo vero Dio e vero Uomo, nato, morto e risorto, che ci rivela l’amore del Padre, unico nome nel quale sta la salvezza e la possibilità di conoscere Dio e di entrare pienamente in relazione con lui.

Evangelizzare, di conseguenza, non significa, innanzi tutto, trasmettere nozioni e comportamenti, ma l’esperienza concreta e personale di un incontro che ha segnato la vita, connotandola profondamente; incontro che non può essere tenuto egoisticamente riservato per sé, ma che deve essere annunciato e condiviso, come fecero Andrea e Giovanni quando “restarono” con Gesù, che li aveva invitati a “venire e vedere” dove abitava (Gv 1, 39-41); un incontro talmente significativo, al punto che dopo molti anni Giovanni ricorda ancora le quattro di pomeriggio, l’ora della giornata in cui era avvenuto!

Una interiorità profonda, quindi, radicata nella relazione con Cristo in una significativa vita ecclesiale, fedele ai pastori, alimentata dalla parola di Dio, dai sacramenti, dalla carità e da un continuo approfondimento dei contenuti fondamentali della fede, non può non diventare, nella coerenza della vita, fonte affascinante e credibile di evangelizzazione.

E questo nella consapevolezza che, come affermava Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, al n. 41, “il primo mezzo di evangelizzazione è la testimonianza di una vita autenticamente cristiana”.

Posted in 2/2017, Nelle sue mani