Relazione e… Salute e forza fisica

_DSC0517Marco Platania e Michela Bertoni – Commissari Generali

Qual è il rapporto che noi abbiamo con il nostro corpo? Come lo teniamo in salute? E soprattutto quanto tale attenzione orienta la nostra applicazione educativa?

Proviamo a dare una risposta a queste domande con questa prima chiacchierata che analizza il tema dell’anno, la Relazione, rispetto al secondo punto di B.-P., Salute e Forza Fisica.

Questo punto, come sappiamo bene, riguarda soprattutto l’attenzione che ogni guida e scout deve porre nei confronti del proprio corpo cercando di avere con esso un rapporto positivo in quanto dono di Dio.

Ciò significa adottare dei comportamenti “virtuosi”, prestando attenzione non solo alla fase attiva della nostra vita, quella che ci porta alla “Forza fisica”, ma anche a quella che potremmo definire come propedeutica alla prima, legata alla salute complessiva, che riguarda sia il corpo che la mente. Un’attenzione rivolta al rispetto del nostro corpo, al suo riposo, al suo ritmo naturale, cercando di riconoscere i nostri limiti, ed imparando che esiste anche la sofferenza.

Sono tutti aspetti che sono molto presenti durante le nostre attività: pensate agli esercizi mattutini di B.-P. oppure alla fatica della strada, che ha fatto crescere in tutti noi la comprensione dei limiti e la bellezza della fatica.

In realtà la forza educativa di tale punto è maggiormente comprensibile se lo mettiamo in relazione con il terzo punto della legge scout: lo Scout è sempre pronto a servire il prossimo.

La nostra salute e il nostro corpo non sono un dono da idolatrare, ma nemmeno da trascurare: il nostro stile di vita deve essere teso ad avere sempre un corpo pronto a servire. Tutto ciò diventa un obiettivo pedagogico che contribuisce, insieme ad altri, alla costruzione dell’ideale di donna e uomo della partenza.

Fra i comportamenti “virtuosi” che dobbiamo tenere, vi è quello di una corretta e sana alimentazione: ma noi che relazione abbiamo con il cibo, e come si concretizza tale attenzione dal punto di vista metodologico?

Cominciamo con la prima domanda. Innanzitutto occorre ricordare alcune cose che forse a volte diamo per scontato: la fame e la sete sono dei bisogni primari, e come tutti i bisogni primari, essi sono fortemente legati al piacere dato, da cui dipende la nostra stessa esistenza.

Nel rapporto che noi abbiamo con il cibo, spesso attribuiamo ad esso un valore che va oltre l’aspetto materiale e diventa simbolico: a volte decidiamo cosa mangiare non solo perché ne abbiamo bisogno, ma anche per divertimento, per desiderio di sicurezza, di prestigio o per quelle scelte che gli studiosi chiamano “d’impulso”.

Pensate però al valore simbolico per eccellenza: noi, attraverso la sua assunzione, lo mescoliamo con la nostra persona, e molte religioni prevedono la fusione con la divinità proprio attraverso l’assunzione di un alimento.

La relazione che noi costruiamo con il cibo ci può dire tantissimo sul rapporto fra noi e il mondo, e con noi stessi! Il mangiare a volte diviene un vero e proprio rituale. I grandi pranzi domenicali con i propri parenti, oppure gli accordi politici fatti attorno ad tavolo da pranzo sono alcuni esempi.

Noi stessi facciamo riunioni di lavoro durante un pasto. I nostri ragazzi spesso escono la sera ponendo al centro del loro incontro il rituale del mangiare: la pizza, il panino, ecc… Riflettete su quanto sia importante il pasto e la sua preparazione durante un campo estivo: l’organizzazione per incarichi e posti d’azione, la parte tecnica (legata alla costruzione del tavolo o del piano cottura) si mescola con quella sociale (la squadriglia mangia insieme, come una famiglia).

Ma vi è anche altro, che a volte, forse, dimentichiamo: “mangiare” è un verbo che muta di significato a seconda del luogo geografico in cui questo è declinato. Nel sud del mondo è legato indissolubilmente alla povertà e allo sfruttamento; nei paesi sviluppati il cibo supera il semplice bisogno di nutrizione. E questo diversa declinazione non dovrebbe essere mai dimenticata nelle nostre attività.

La nostra relazione con il cibo può anche essere “corrotta”. Pensate a tutte le situazioni di disagio nel rapporto con gli altri e con se stessi che portano a forme anomale di comportamento alimentare: anoressia, bulimia, rapporto con le bevande alcoliche.

E veniamo alla seconda domanda: cosa dobbiamo fare? Cioè, cosa significa per noi educatori tutto questo?

Significa innanzitutto essere d’esempio per i nostri ragazzi con il nostro comportamento; occorre sviluppare una relazione con il cibo improntata alla temperanza, ossia a quella virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri, che ci rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati.

Essa ci permette di mantenere i desideri entro i limiti dell’onestà. Una persona temperante conserva una sana discrezione, orienta al bene i propri appetiti sensibili e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore.

E quali saranno i gesti concreti nel nostro servizio? La frugalità, ossia l’essenzialità nel mangiare. La sobrietà, la moderazione nel bere.

Significa anche comprendere che le nostre attività fisiche non sono fini a se stesse ma devono essere orientate avendo sempre ben presente il terzo punto della legge.

Significa infine esaltare la relazione che noi poniamo con noi stessi (salute) e verso gli altri (forza fisica) anche in una prospettiva simbolica: San Massimiliano Kolbe (1941) si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia, destinato al bunker della fame nel campo di concentramento di Auschwitz. Se la salute è importante, è ancora più importante dedicarsi agli altri: solo così si può vivere davvero oltre la morte.

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