Paternità

Marco Cavalieri

Qualche giorno fa ricevo la telefonata di Pier Marco che mi chiede: “Visto che da poco sei diventato papà, vorrei che scrivessi qualcosa sulla tua esperienza, su cosa significa per te la paternità…”.

Ora vi confesso che ad un certo punto della mia vita, non so bene quando, ho cominciato ad immaginarmi sempre più vecchio, su di una sedia a dondolo, in silenzio, zitto, muto completo.

In realtà quando sono tra amici, al netto della sedia e della tarda età, lo faccio già da un bel po’: ascolto, cucino, sto zitto sollevandomi dall’ossessione della parola.

Sarà perché mi rendo conto sempre più che dire o meglio stare a spiegare quello che ti è toccato di campare a chi “non c’è passato” non c’è verso di farglielo capire e tanto meno di insegnarglielo.

Oppure, bene che ti vada, capita di parlare con qualcuno che ha avuto la tua stessa esperienza ed allora è ugualmente inutile perché ognuno se la vive come può e come sa.

Ecco forse che è meglio, parlare di testimonianza intendendola come un filtro, un setaccio attraverso cui riescono a passare piccoli frammenti del proprio vissuto; solo quelli che fanno risuonare in qualche modo chi ti sta ad ascoltare.

Sono giorni che giro intorno a questo articolo, avrò scritto non so quante cose ma il punto è se mi si chiede di parlare della MIA paternità è come chiedere ad un Cucciolo il giorno della sua ammissione in Branco di teorizzare sugli scritti di Vera Barcley.

Cosa volete che ne sappia io? Mia figlia è nata tre mesi fa.

Io non so niente di paternità e non posso sapere niente. Chi vi dice il contrario non ha figli oppure ha una memoria da romanzetto rosa.

La cosa che so con certezza è che non sono madre, non ho portato dentro di me mia figlia, non ho visto il mio corpo cambiare, la mia chimica non ha stravolto le mie percezioni ed il mio umore che grazie a Dio è sempre pessimo e prevedibile e il mio olfatto non è diventato quello di un cane da caccia.

Per farvi un quadro del giorno in cui Irene mi ha detto di aspettare un bambino la cosa è andata più o meno così:

Irene: “Dormi?”

Marco: “grhuuu!”

Irene: “Lo vuoi un caffè?”

Marco: “mmmmhhhh”

Irene: “Ma dormi ancora?”

Marco: “Irene sono in catalessi. E’ un problema?”

Irene: “Anch’io ho un problema… sono incinta”

Marco: “Andiamo per ordine Irene. Di grazia, di quanto è questo ritardo?”

Irene: “…di oggi”

Marco: ”mmmhhh… e per un ritardo di meno di 24 ore tu saresti incinta?”

Irene: “Ieri ho comprato il test, perché non può essere che ho un ritardo”

Marco: “Quindi, mi svegli all’alba per dirmi che ieri hai imbastito uno guerra preventiva ad un ritardo di un giorno che ancora che non aveva visto un alba?”

Irene: “Mamma mia che sei pesante! Ho fatto il test poco fa…sono incinta!”

Marco: ”Ah! (pausa) Ah! (pausa) Fammi un caffè, per favore!”

Ecco, in tutta questa rottura del senso logico sta la rivoluzione della vita di un uomo che diventa padre. La razionalità non ha più cittadinanza a casa mia.

Sta di fatto che in quel ritardo c’era Adriana e Irene sapeva.

Ancora ora cerco di fare la selezioni fra le notizie razionali, le raziocinanti e quelle dettate dalle antenne chirurgiche di mia moglie.

Ed è sulla figura della mia moglie, per l’appunto, che andrebbe aperto un capitolo.

Sia chiaro che la moglie del giorno prima ha ceduto il passo ad una donna nuova con la quale va ricostruito un rapporto totalmente nuovo.

Non verrò a dirvi che l’operazione è espressione dell’amore romantico o che una colomba bianca si poggia sul talamo nuziale cambiando i cuori degli sposi.

Ve ne prego lasciate che non offenda la vostra intelligenza. Semplicemente la melassa non esiste.

Ho visto giorni in cui il buon Dio è entrato a gamba tesa sulle questioni di casa di questa nuova famiglia perché nel caso contrario sarebbe molto difficile tenere le cose in piedi.

Suppongo che sia in questi momenti che amare si conferma decisione come atto di volontà e che il buon Dio faccia grandi aperture di credito ad una coppia… oltre a fare da pazientissimo arbitro di boxe.

Tornando alla mia paternità, una volta appresa la notizia ho vissuto il più del tempo come una questione di logistica.

Organizzare questo e quello e tenere a bada l’overdose di progesterone che mi stava accanto.

Ascoltare, tacere, ammutolire, stoppare ferocemente.

Poi Adriana è nata ed io sono entrato nel mio personalissimo stato di gravidanza.

È uscita dalla sua mamma trasfigurata e mi è entrata dentro la testa e dentro il petto togliendomi il respiro senza pietà.

La cosa mi ha terrorizzato perché ho avuto paura di perderla e perché non mi sentivo all’altezza di essere suo padre.

Avrei voluto essere una persona migliore per Lei.

Ogni giorno che passa trovo, però che mi educhi sempre più alla serenità nel nostro personale rapporto.

Sembra dirmi che Lei c’è e ci sarà qualunque cosa nella vita abbia messo dentro di me la paura di perderla.

Ogni giorno sempre di più mi rendo conto di essere il suo papà. E che c’è una persona nuova di zecca che mi vuole bene, anche malgrado me.

A pensarci bene pare sia questo l’essere famiglia… ma ora rientro nel mio silenzio, in questi giorni un’isola benedetta.

Buona caccia!

Posted in 4/2016, Paternità