Estote Parati

Il 6 maggio del 1976, alle 21,06, un terribile terremoto colpì il Friuli. L’impatto emotivo sulla nazione fu enorme, alla vista di interi paesi rasi al suolo, con un impressionante numero di morti, in continuo drammatico aumento. Come al solito, oltre alle forze preposte, molti volontari partirono da ogni parte d’Italia.
Anche numerosi Clan e Fuochi della nostra neonata Associazione partirono per raggiungere le zone terremotate.
Io, Capo Clan, ero insegnante di liceo e non potevo abbandonare il posto di lavoro nella parte conclusiva dell’anno scolastico. Perciò partimmo appena liberi dagli impegni scolastici, attorno alla metà di giugno. Ma io ero molto perplesso. Sapevo bene che tanti volontari erano più di intralcio che di aiuto. Mi chiedevo in cosa saremmo potuti essere
utili noi, quindici ragazzi, privi di strumenti adatti a rimuovere macerie e inadatti a intervenire in qualche modo su una popolazione smarrita e bisognosa di ogni cosa. Devo dire che partii di malavoglia, senza farlo trasparire ai miei Rovers. Ma l’“Estote parati” era pur sempre il nostro motto, per cui accettai la sfida. I Clan e i Fuochi che ci avevano preceduto avevano svolto il loro servizio a Vito d’Asio, un paese che non avevo neppure mai sentito nominare prima di allora.
Giungemmo nel tardo pomeriggio, dando il cambio a due Clan, uno di Treviso ed uno di Roma. Il paese era stato completamente distrutto per cui era stata allestita una tendopoli su un prato fuori dal centro abitato. Nei pressi era stata edificata una costruzione in legno che fungeva da cucina e da mensa per gli abitanti e per coloro che lavoravano alla bonifica del sito. Erano presenti anche alcuni soldati, comandati da un tenente, con compiti logistici.
Ci era stato assegnato uno spazio non lontano dalla tendopoli per piantare le nostre tendine, cosa che facemmo, allestendo anche una sorta di cucina-soggiorno riparata da teli, secondo tradizione. Poco lontano si era accampata anche una pattuglia di Scolte, con la loro capo, che svolgevano il loro servizio contemporaneamente a noi.
La sera stava scendendo, gli altri Clan se n’erano andati e io mi interrogavo sul significato della nostra presenza: mi sembrava che fossimo quasi degli intrusi in un contesto già organizzato. Cenammo in mensa, assieme a tante persone, per poi recarci a riposare, dopo esserci messi d’accordo con il responsabile della tendopoli, un bravo e simpatico giovane, tarchiato, cordiale e deciso, che il giorno seguente noi saremmo stati disponibili alle richieste della gente, per servizi adatti alle nostre capacità. Infatti così avvenne. Su una parete della mensa fu posta una bacheca dove gli abitanti che avevano bisogno di qualche lavoro scrivevano le loro necessità: così, a gruppi, i Rovers si dedicarono ad ogni tipo di servizio. Aiutammo a sistemare la legna, a rastrellare il fieno, a diradare piantine di granoturco, a mettere in ordine masserizie, a raccogliere le immondizie. Le Scolte, d’altra parte, distribuivano, a chi ne faceva richiesta, capi di vestiario giunto da ogni parte d’Italia ed anche da diversi stati europei. Ma mi restava un po’ l’amaro in bocca di sentirmi quasi di peso, perché anche noi usavamo della mensa. Così decidemmo di cucinare per conto nostro: durò poco, perché la signora che gestiva la mensa ci disse che la nostra presenza insieme agli altri era non solo gradita, ma desiderata: non erano certamente i nostri pasti a mettere in crisi la loro cucina. Ciò mi fu di grande insegnamento. Perciò ritornammo a condividere i pasti con tutti i paesani e i lavoranti con cui, un po’ alla volta, entrammo in relazione. Gli abitanti erano con noi estremamente cordiali e grati dei piccoli servizi che facevamo: avevano perso quasi tutto, ma erano così ospitali e generosi che ci invitarono più di una volta a pranzo o a cena, a condividere quel poco che avevano. Una cosa veramente commovente ed educativa per il clan intero. Ma il vero servizio, senza che lo cercassimo, si presentò sotto altra forma. La sera dopo il nostro arrivo, improvvisammo un fuoco di bivacco tra di noi, per concludere la giornata con qualche canto e la recita delle preghiere. Si unirono quasi tutti i militari e qualche persona della tendopoli. La sera successiva preparammo un cerchio con delle panchine per l’eventuale pubblico che difatti si presentò in proporzione ben maggiore della sera precedente. La terza sera decisi di non svolgere il fuoco di bivacco, per non dare l’impressione che fossimo dei saltimbanchi. Ma mi pentii amaramente quando giunsero dei camion pieni di soldati provenienti non so da dove: erano venuti proprio per stare insieme attorno al fuoco e cantare in compagnia. Dalla sera successiva la nostra giornata si concluse puntualmente con il fuoco cui parteciparono sempre più persone: così dal tenente di Vito d’Asio si passò al maggiore per finire al colonnello, giunto l’ultima sera con la moglie e un numero enorme di soldati. Naturalmente ai canti dovemmo aggiungere giochi, scherzi e ban. L’attesa era diventata così grande che alcuni soldati rinviarono la loro licenza pur di restare fino alla fine della nostra settimana di servizio. La conclusione dell’ultimo fuoco fu veramente straordinaria: dopo le preghiere recitate compostamente da tutti, cantammo il canto dell’addio e devo dire che la commozione prese tutti. Eravamo andati per obbedienza a quell’“Estote parati” che ci contraddistingue, e ci ritrovavamo con la consapevolezza di aver svolto uno dei servizi più belli e nobili: aver fatto felici almeno per qualche ora, persone o colpite dalla tragedia o inviate a svolgere impegnativi compiti.

Claudio Favaretto

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Posted in 2013, 3/2013, Radici