Dietro la maschera

Stefano Bertoni (stefano.bertoni1970@gmail.com)

Bruciate gli zingari”, “i negri non li vogliamo”, “i clandestini ci rubano il lavoro”: tre esempi di tipica inciviltà da social network, divenuti ormai il mezzo principe per veicolare messaggi di odio conditi di norma da turpiloquio in abbondanza.

Pare ormai assodato che dietro la maschera dello schermo di un pc o di uno smartphone chiunque si senta autorizzato a dare sfogo ai suoi istinti più bassi e a veicolare ogni sorta di violenza verbale.

Il fenomeno a livello internazionale ha ormai trovato anche la sua definizione giuridica nel termine “hate speech”: l’espressione, solitamente tradotta in italiano con “incitamento all’odio”, è una categoria elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana e sta ad indicare parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo.

Tale pratica già di per sé odiosa aumenta il rischio di provocare reazioni violente contro quel gruppo o da parte di quel gruppo a cui si rivolge.

Negli Stati Uniti si è ampiamente dibattuto come la condanna dello “hate speech” – sia sul piano giuridico che nelle conversazioni al bar – risieda in un equilibrio elastico ma spesso molto delicato con la libertà di parola, principio che oltreoceano è tutelato dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (principio comunque fondante, con le sue regole, di ogni vera democrazia).

In Italia è estremamente interessante il quadro rilasciato dalla “Mappa dell’Intolleranza”, progetto realizzato da Vox – Osservatorio italiano sui diritti insieme alle università di Milano, Bari e Roma.

Il progetto ha scelto come focus di attenzione il sociale network twitter, è giunto alla sua seconda edizione e ha analizzato due milioni e 659.879 tweet tra agosto 2015 e febbraio 2016: la scelta di Twitter da parte dei curatori del progetto si spiega con il fatto che, sebbene fra i social network sia meno utilizzato per la condivisione di stati personali, consentendo di re-twittare offre l’idea di “una comunità virtuale continuamente in relazione”.

Al di là delle caratterizzazioni locali (che ci permettono di osservare in quali aree siano più diffuso il linguaggio violento nei confronti delle donne, degli immigrati, ecc.) l’immagine che ne esce del nostro paese è estremamente preoccupante, perché non esistono aree che si possono considerare al di fuori o toccate solo marginalmente dal fenomeno.

Senza addentrarsi in considerazioni di carattere giuridico, dal punto di vista di un educatore ci sorgono inevitabili degli interrogativi: dato per assodato che ormai viviamo tutti o quasi immersi nella rete, quali domande dobbiamo porci nel momento in cui andiamo a pubblicare o semplicemente a rilanciare determinati contenuti sui social o sul web in generale?

Giusto per esemplificare, dovremmo chiederci: in una normale conversazione nel mondo reale utilizzerei quei toni o quel linguaggio?

Accetterei, nel caso in cui sia un genitore, che mio figlio si esprima o adotti un comportamento simile?

Sono contento di sapere che i ragazzi che mi vengono affidati hanno un approccio di questo genere nell’utilizzo dei social network?

Se ci sentiamo più portati ad esprimere un pensiero sul web che non esprimeremmo mai o raramente dal vivo, questo è senza dubbio un campanello d’allarme e significa che siamo fortemente condizionati da uno strumento che ci permette di indossare una maschera impropria e di nasconderci dietro uno schermo

Gli spunti su questa materia sarebbero infiniti: come sempre Papa Francesco dimostra di essere attento e all’avanguardia nel suo messaggio per la 50esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, sul tema: “Comunicazione e Misericordia, un incontro fecondo”.

Nel messaggio il Pontefice esprime un auspicio: “Come vorrei che il nostro modo di comunicare, e anche il nostro servizio di pastori nella Chiesa, non esprimessero mai l’orgoglio superbo del trionfo su un nemico, né umiliassero coloro che la mentalità del mondo considera perdenti e da scartare!”.

Il Papa ricorda a tutti come “la misericordia può aiutare a mitigare le avversità della vita e offrire calore a quanti hanno conosciuto solo la freddezza del giudizio” e per questo motivo, “lo stile della nostra comunicazione” deve essere “tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti. Noi possiamo e dobbiamo giudicare situazioni di peccato – violenza, corruzione, sfruttamento, ecc. – ma non possiamo giudicare le persone, perché solo Dio può leggere in profondità nel loro cuore”.

Sempre secondo Francesco “non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione”.

Parole che dobbiamo sempre tenere presenti nel momento in cui le nostre dita si apprestano a premere un tasto e a lanciare un messaggio nel mare della rete…

Posted in 4/2016, Preparati a Servire