Suor Alessandra, nei tuoi interventi hai più volte valorizzato la tradizione mediterranea, che ha promosso l’economia come scienza della pubblica felicità, contrapponendola a quella anglosassone dominante, che vede l’economia come scienza della ricchezza. Cosa vuoi dire?
Per la tradizione mediterranea l’agire economico è una espressione di virtù civili. Una tradizione tutta italiana, risalente alle abbazie, ai conventi e alle città medievali, che ha preparato l’umanesimo civile con le prime teorizzazioni dell’economia di mercato e che ha come più alto rappresentante l’abate Antonio Genovesi, il quale nel 1754 ha fondato a Napoli, presso l’università Federico II, la prima cattedra di economia della storia.
Egli è stato contemporaneo di Smith, e come lui sia filosofo morale che economista. Tuttavia i due autori divergevano in alcune linee sostanziali. La prima nota di differenza è antropologica: laddove Smith considera la “propensione a scambiare” la nota specifica degli esseri umani, Genovesi sostiene che ciò che distingue gli esseri umani dalle altre specie animali è il reciproco diritto-dovere di soccorrersi, la reciprocità. Da questo discende che per Genovesi le relazioni di mercato, come tutte le altre relazioni civili, sono faccende di ‘mutua assistenza’. Per questa ragione, per Genovesi la fondamentale pre-condizione dello sviluppo economico è la creazione di un tessuto civile di fiducia, la “fede pubblica”, quello che oggi chiamiamo “capitale sociale”. Oggi si assiste ad un ritorno di interesse nei confronti del pensiero di Genovesi, che si presta molto bene ad offrire nuove prospettive in questa fase di crisi del capitalismo.
Tra i tuoi lavori c’è una valorizzazione della gratuità anche nell’esperienza lavorativa. Vuoi spiegarci meglio, visto che – come sai – i nostri Capi e Capo sono tutti volontari e hanno ben presente l’importanza della gratuità?
La scienza economica moderna, e quindi anche quella aziendale, è nata dall’espulsione della gratuità e delle relazioni personali dalle faccende economiche. Nella sua Theory of moral sentiments, Smith ci ricorda che: «La gratuità è meno essenziale della giustizia per l’esistenza della società. La società può sussistere, sebbene non nel modo migliore, senza gratuità; ma la prevalenza dell’ingiustizia la distrugge senz’altro».
E su questa base Smith afferma che: «La società civile può esistere tra persone diverse … sulla base della considerazione dell’utilità individuale, senza alcuna forma di amore reciproco o di affetto».
Una tesi importante e apparentemente condivisibile; in realtà in essa si nasconde un’insidia, rappresentata dall’idea che la società civile possa funzionare e svilupparsi anche senza gratuità, ovvero che il contratto possa essere un buon sostituto del dono: una tesi, questa, che guadagna sempre più consenso oggi nella società globalizzata. Il dono e l’amicizia sono faccende importanti nella sfera privata, si dice, ma nel mercato e nella vita civile possiamo farne tranquillamente a meno. In realtà, come la crescente solitudine e infelicità delle nostre economie opulente ci stanno dicendo, una società senza gratuità non è un luogo vivibile, né tantomeno un luogo di gioia. Nessuna idea come questa di Smith si pone ancora oggi al cuore della scienza economica.
Le conseguenze che derivano da questo modo di vedere la realtà sono molte. Ne citiamo solo alcune. La prima è che l’economia ne è venuta fuori come la scienza triste, che si occupa solo di massimizzazione di profitti e ottimizzazione delle scelte di consumo. Ma se, invece, l’economia è anche il luogo delle passioni, degli ideali, dell’interesse per la felicità pubblica, allora anche oggi, ci può essere qualcosa di nuovo da proporre al modo di fare economia e di vivere nelle organizzazioni. La seconda è che la gratuità è stata e tuttora viene considerata come un di più, come un dessert alla fine di un lauto pranzo: se c’è, tutti sono contenti; se non c’è il pranzo comunque l’abbiamo consumato.
Il mondo dell’economia, quindi, da una parte ha espulso la dimensione del prendersi cura, delle relazioni, della vulnerabilità e della fragilità, affidandole alla vita privata, e in particolare al mondo femminile, rendendo di fatto spesso impossibile che molte donne possano coltivare anche una loro vocazione professionale; dall’altra, espellendo la vulnerabilità e la cura ha reso la vita lavorativa un luogo spesso invivibile, perché la vulnerabilità e la fragilità sono condizione dell’umano, di ogni uomo e di ogni donna.
È corretto perciò dire che l’abitudine alla gratuità è insieme una risorsa importante per la persona ed un valore aggiunto per la comunità?
Esattamente, purché capiamo bene cosa sia la gratuità e la riportiamo nelle piazze, nelle strade, nei luoghi di lavoro. Benedetto XVI, nella sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, al numero 2 così si esprime: “Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro… In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a interpretare e dirigere le responsabilità morali”.
L’irrilevanza, oltre ai motivi detti prima, deriva anche dal fatto che troppo spesso abbiamo confuso la gratuità – carità con il buonismo, e troppo spesso abbiamo confuso il gratuito con il gratis, cioè a prezzo zero. Invece essa è semmai da associare ad un valore infinito. Gratuità è riconoscere che esiste in se stessi, negli altri, e persino nelle cose, una vocazione che va servita e rispettata, e mai asservita ai propri interessi. Lavorare gratuitamente dunque, non è necessariamente da associare. al lavorare “gratis”, ma è qualcosa di ben più alto e più grande. Ed è un qualcosa di cui i nostri luoghi di lavoro e le nostre comunità hanno bisogno.
Una difficoltà che si pone con forza è, soprattutto per le donne, la conciliazione tra famiglia e lavoro. Sulla scia di Giovanni Paolo II, tu sottolinei spesso il valore del contributo femminile nella società.
Oggi assistiamo al fenomeno per cui una famiglia con figli per vivere dignitosamente ha bisogno che entrambi i coniugi lavorino. Molti dei dati a nostra disposizione mostrano come per la maggior parte delle famiglie, soprattutto quelle che vivono nelle grandi aree metropolitane, sia impossibile vivere con un solo reddito. Il lavoro per la donna non è più, dunque, solo una scelta, ma diventa necessità.
Un primo problema che emerge è che, mentre i coniugi si dividono più o meno equamente nel lavoro fuori casa, quello dentro casa, e in particolare il lavoro di cura, continua a pesare in larga misura sulle spalle della donna (in Turchia la donna dentro casa lavora 4 volte di più rispetto all’uomo, mentre in Giappone addirittura 6 volte di più).
Un secondo problema è che, a parità di altre condizioni permane una differenza salariale tra uomini e donne, e che i luoghi di lavoro sono ancora troppo pensati e gestiti secondo stereotipi maschili: tutto ciò rende molto difficile per troppe donne realizzare i propri talenti anche sul luogo di lavoro. I recenti sviluppi dell’economia sperimentale hanno permesso di studiare, sotto forma di esperimenti, se ci sono differenze significative nei comportamenti economici tra uomini e donne.
Da questi studi emerge da una parte l’esistenza di alcune potenzialità femminili che, se valorizzate, aiuterebbero a migliorare i luoghi di lavoro; dall’altra che alcuni sistemi di management e strutture organizzative andrebbero migliorati per tener conto dello specifico femminile e valorizzarlo, anche in termini di efficienza. Le ricerche in questo campo stanno diventando abbondanti e suggeriscono non solo che la chiave dello sviluppo è in una maggiore presenza delle donne in posti strategici delle imprese, ma anche che è arrivato il momento di imparare ad accogliere lo specifico della donna, complementare e in reciprocità con tutte le potenzialità maschili.
Uno dei problemi principali da affrontare oggi è la disoccupazione giovanile.
Anche i nostri Capi faticano ad inserirsi nel mondo del lavoro, spesso con un salario di ingresso così basso da non consentire la formazione di una famiglia.
Nessuno ha la bacchetta magica, ma pensi di poter dare qualche indicazione in proposito?
La disoccupazione giovanile è una piaga oggi in Italia e in parte dell’Europa. Un’economia stagnante, che non cresce, fa fatica a rinnovarsi sta espellendo le componenti più deboli, ma anche più vitali e creative, generando così un circolo vizioso. Una soluzione che per molti si sta profilando all’orizzonte è quella di emigrare. Conosco tanti colleghi che dall’epoca del dottorato hanno scelto di andare a studiare all’estero, e vi sono rimasti.
Credo però che questa non sia la soluzione di tutti i problemi, e soprattutto non sia la soluzione che permetterà all’Italia di riprendersi.
Il tema oggi, anche e soprattutto per i giovani, è quello dell’innovazione, del creare lavoro, piuttosto che cercare un posto di lavoro. Pensiamo solo al fatto che in Italia abbiamo circa un milione e mezzo di badanti che provengono dall’estero, e il cui costo pesa fortemente sulle famiglie, perché non siamo riusciti a gestire il problema della cura di anziani e ammalati. In questo campo c’è spazio per inventare qualcosa di nuovo così come in altri servizi. Conosco un gruppo di giovani che si sono associati e posti al servizio delle imprese per andare incontro a tutte le necessità dei dipendenti (pagare bollette, andare a prendere i figli a scuola, ecc.), in un servizio integrato che le aziende sono disposte a pagare in quanto la produttività dei dipendenti aumenta se non sono assillati dalle mille preoccupazioni della vita quotidiana. Poi c’è tutto il tema delle riforme di cui abbiamo bisogno per far ripartire l’economia e per difendere i giovani e le giovani famiglie, vera risorsa per la società italiana, ma questi punti meriterebbero approfondimenti a parte. Così come le riforme del sistema dell’istruzione e della formazione: oggi un giovane arriva a laurearsi aver mai avuto contatti con il mondo del lavoro…
Infine, credo che come cristiani, oltre tutto quello che dobbiamo fare a livello civile e politico, abbiamo anche un dovere di solidarietà verso i giovani e verso le famiglie più giovani, e se crediamo al valore della famiglia dovremmo inventare noi forme di sostegno e aiuto a chi vuol metter su famiglia e non abbandonarli a loro stessi. Non è questa una forma di povertà emergente che ci interpella?
PIER MARCO TRULLI