È stato il più giovane membro della nazionale neozelandese a prendere parte ad un mondiale, ha messo a segno 37 mete in 63 partite in cui ha vestito la maglia degli All Blacks e detiene il record di 15 mete in 11 partite giocate durante i mondiali del 1994 e del 2002. La sua vita è una collezione di record sportivi tanto che l’intero mondo del Rugby lo ha consacrato come il più grande giocatore di sempre, nonostante non sia mai riuscito a portare la sua nazionale a vincere un mondiale e a sollevare da terra la tanto agognata Web Ellis Cup.
Jonah Lomu incarna, nell’immaginario di tanti, lo stereotipo del rugbista per eccellenza: 192 cm di altezza e 119 kg di peso sono le misure della sua stazza ammirevole e temibile anche fuori dal campo, ma la sua storia ci parla di un uomo che a colpi di carattere e avventure sportive ha lasciato il segno ben oltre questi numeri contribuendo a cambiare la storia di questo sport. Nasce nel 1975 ad Auckland da genitori tongani trasferitisi in Nuova Zelanda e cresce nei bassifondi di questa città. La predisposizione alle attività sportive si rivela sin da subito la sua caratteristica più evidente: ancora oggi alcuni suoi record stabiliti in varie discipline sono scolpiti nei muri delle scuole che ha frequentato e restano imbattuti.
Piuttosto precocemente, però cominciano per lui le sfide dell’esistenza, nello sport e nella vita. Sì, perché dopo aver giocato, a soli vent’anni, uno spumeggiante primo mondiale dando il massimo di se’, gli viene diagnosticata una nefrosi congenita e degenerativa che si preannuncia difficile da affrontare. Nel momento in cui conosce un livello di impegno sportivo e notorietà che crescono esponenzialmente e trasformano la vita in modo inaspettato, proprio nell’anno in cui gioca una semi-finale memorabile contro l’Inghilterra mettendo a terra una gran quantità di avversari, arriva per Jonah anche una sentenza dura da digerire, soprattutto a vent’anni, soprattutto per uno che del corpo stava facendo lo strumento di elezione per il lavoro e per la vita.
A ben guardare, Jonah comincia a diventare il migliore rappresentante di questo sport non solo per le sue misure, la sua ingenua sregolatezza di ventenne o la voglia di giocare di un giovane pieno di energie. Quanto perché gioca da fuoriclasse uno sport che ha la straordinaria caratteristica di portare in campo la verità del corpo a corpo, dove il gioco restituisce la qualità e il valore degli avversari, dove, appunto, si misurano uomini nell’interezza della loro persona. Perché a poco valgono i tatticismi, le sofisticherie tecniche o il calcolo, in campo il cuore deve battere al tempo del talento in un condensato di equilibrio e scaltrezza e Jonah, in questo, eccelle.
E così, al fiorire della sua carriera sportiva, dopo il secondo mondiale giocato (il primo a soli 19 anni), dopo la diagnosi della malattia, Jonah subisce il primo trapianto di reni all’età di 29 anni e l’anno dopo prova a ricominciare. Prova a ripartire dal vecchio continente accettando un ingaggio di una squadra gallese e riesce a giocare 10 partire nell’arco di 7 mesi prima di subire un infortunio alla caviglia che lo blocca nuovamente. Nel 2007, quasi deciso al ritiro ma, forse, confortato dall’ingresso nella Hall of Fame del Rugby, decide ancora una volta di tentare e nel 2009 gioca 7 partite in una squadra francese, di terza divisione. Poi si ritira definitivamente e nel 2011 subisce il secondo trapianto di rene che non da i risultati sperati. Il mondo lo ha salutato calorosamente il 18 novembre 2015, giorno della sua improvvisa morte all’età di soli 40 anni.
La sua più grande eredità è stata quella di aver trasformato uno sport conferendogli una notorietà e un seguito inediti traguardandolo verso il professionismo, tutto mentre per vent’anni continua a soffrire di un male incurabile che gli ha impedito di giocare ad alti livelli. Per il rugby c’è un prima e un dopo Lomu, lui è stato la prima vera superstar globale che con la sua popolarità ha contribuito a far conoscere questo sport ben oltre il novero degli appassionati tradizionali.
Ma ancor di più, molti ragazzi hanno trovato ispirazione e considerano ancora un modello questo gigante gentile per aver mostrato loro che con la giusta determinazione è possibile scommettere sulla propria vita e fare scelte libere che portano lontano da contesti di violenza e disillusione, pur provenendo da ambienti di povertà ed emarginazione sociale.

#diconodilui
Vittorio Munari, uno dei maggiori conoscitori di palla ovale in Italia, lo descrive così: «Questo ragazzo sta al rugby come il giro di boa sta alla regata perché il suo intervento in questo sport è stata la premessa di grandi cambiamenti e ha aperto la strada al professionismo, negli anni Novanta era impossibile non parlare di lui. Ma voglio ricordarlo soprattutto come una persona splendida, di una grandissima semplicità e modestia che ha saputo portare il peso della sua malattia con estrema dignità. È stato sicuramente un grandissimo ambasciatore di questo sport».