Ciao Marco, per iniziare parlaci un pò di te…

Io sono Marco Valerio, ho 20 anni e sono Akela e rover del Roma 5. Non saprei cosa dire per indicare al meglio la mia personalità, ritengo di essere altruista o almeno tento di non tirarmi mai indietro quando c’è da dare una mano.

Raccontaci cosa ti ha spinto a partire per l’Africa come missionario.

Sin da piccolo ho sempre avuto questo spirito “missionario”; leggendo e guardandomi attorno vedevo sempre di più il “partire con lo zaino per servire” una via ben segnata sul mio cammino.
Per molti anni ho pensato fosse solo un sogno irrealizzabile, ma l’anno scorso nel momento in cui ho visto il mio mondo crollarmi addosso, ho deciso di prendere lo zaino, fare una chiamata e partire… Non sapevo cosa mi aspettava nè se sarei stato all’altezza, sapevo soltanto che l’Africa mi stava chiamando: io ho risposto.

Cosa significano per te i concetti di normalità e a-normalità?

Normale nel mio vocabolario ha un’accezione molto negativa, normale vuol dire conformarsi a come ti vogliono gli altri, l’anormale è colui che aspira a qualcosa di più, qualcuno che esce dagli schemi per rispondere a chiamate diverse, chiamate che i “normali” non ascolteranno mai.

L’idea che avevi di “normalità” è cambiata dopo la tua esperienza di missione? Cosa hanno di “anormale” le persone che hai incontrato?

Dopo essere stato un mese in Togo il mio concetto di normale s’è rafforzato sempre più come concetto a cui non aspirare assolutamente. Atterrato all’aeroporto di Lomè sono stato catapultato in un universo totalmente differente da quello a cui ci abituano. Le persone non coincidono minimamente al modello impostato “occidentalizzato” e hanno una vitalità che  ti spiazza. La maggior parte della gente con cui mi sono intrattenuto rasentava la povertà, eppure aveva una forza vitale allucinante.
A chi me lo chiede rispondo che la cosa che più mi ha colpito del mio viaggio è stato il sorriso, ovunque mi girassi ne vedevo una pioggia. I giovani togolesi dell’orfanotrofio in cui sono stato, studiano (vanno a scuola dalle 5 alle 11 della mattina), lavorano nei campi per la missione e trovano il tempo per essere felici pur non possedendo nulla.

Trovi che la tua idea di normalità/anormalità sia la stessa che vivono i tuoi coetanei o credi di avere una versione differente? Cos’è cambiato nella tua vita quotidiana dopo l’esperienza in Africa?

Sinceramente ho rafforzato sempre più l’idea che la felicità non derivi dalle cose che si possiedono, bensì credo che vada trovata altrove, nei sorrisi delle persone per cui ci si spende. Non credo che i miei “coetanei” mi ritengano normale e sinceramente non mi dispiace, comunque quest’idea non è mutata dopo o durante il viaggio, è un’idea innata dentro di me che deriva dalla lettura dei testi di Thoreau e Blake e ancora McCandless e molti altri. Nella mia quotidianità è cambiata solo la concezione del valore che do alle cose che posseggo e alle persone che mi circondano.

I mass media, secondo te, che ruolo hanno su questo tema?

Secondo me i mass media hanno un ruolo ormai secondario in questo campo, il problema di fondo sul disinteressamento generale risiede nella pigrizia dei giovani, della gente come me, che avrebbe la possibilità di avere tutte le informazioni possibili e immaginabili tramite internet ma che non se ne interessa. La gente combatte le proprie battaglie da dietro uno schermo e non si rimbocca più le maniche come dovrebbe fare.

Un’ultima domanda prima di salutarti. In un’esperienza forte come questa, la fede come si manifesta?

Ti senti in debito con il Signore perché ti rendi conto di non aver ringraziato mai abbastanza. Si rafforza sempre di più l’idea di un disegno più grande che sia mirato alla costruzione di un mondo dove le cose importanti sono fratellanza e amore e non il possedere cose che non hanno valore. La fede diventa più forte e ti senti realmente figlio di Dio e fratello di tutti loro.

Intervista_2

Bianca Marinelli